giovedì, febbraio 08, 2007
posted by Fabrizio Giannone at 07:19

06 febbraio 2006

Ore otto di mattina, o giù di lì. Viene a nevicare. Guardo il cielo, non ancora a giorno, attraverso la luce fredda ed artificiale di un tubo a neon. Timidi fiocchi di neve cercano, con poco successo, di farsi largo fra migliaia di gocce d’acqua che come un esercito ordinato scendono lungo la superficie irregolare del palazzo alle mie spalle. Il freddo pungente mi obbliga a stringere le spalle all’interno di un giubbotto di almeno due taglie più grande. Penso alla neve. A come fra tutti i fenomeni atmosferici sia la più comunista. Lei scende e copre ogni cosa adattandosi alle imperfezioni e in qualche modo pareggiandole. Forse dovrebbe essere rossa e non bianca e magari a forma di tanti falcetti e martellini. Forse aggiusterebbe pure me.

Vorrei essere altrove, Parigi non mi è mai piaciuta. Il destino mi ha sempre trascinato qui ogni volta che le cose non andavano. Senza mai trovare alcuna cura. Mi rimane difficile rimanere concentrato sull’innocenza della neve, i pensieri saltano da un ponte all’altro e con profonda tristezza non ci trovano più nessuno. Ho passato l’intera estate a costruire ed è bastato un misero mese, anzi solo una manciata di giorni, a portarsi via tutto e a rimettermi nel mio mondo malato. Forse è qui che ho edificato le mie certezze. Migliaia di castelli di carte senza radici solide. “Una patetica esistenza dai mediocri interessi”…ancora grazie per la descrizione con poche e graffianti parole!

Piangere. Forse vorrei piangere. Se non altro mi libererei per qualche ora. Ma le lacrime sembrano non volere più scendere. Forse molto più semplicemente sono finite. Pindaricamente volo ad Acqui nelle mie stanze vuote. Quale facciata descriverebbe meglio questo mese di febbraio e il mio stato d’animo? Mi sento stanco, mi ripeto ossessivamente che dovrei lavorare solo un po’ di meno. Intanto osservo che non servirebbe a nulla. Continuerei ad essere stanco. E penso a quella frase letta pochi giorni fa: “malattia: raddoppiare gli sforzi quando si è perso di vista l’obiettivo.” Un sorriso improvvisamente si dipinge sul mio volto. Già l’obiettivo è andato perso tanto tempo fa, perché continuare a sforzarsi per raggiungerlo? Mi arricchirebbe? Conosco la risposta da quasi un anno ormai. Penso allora ad altro. Voglio ancora sperare che nella vita esistano delle magie. E che ne valga la pena. Già.

L’autista arriva e inizia un altro giorno.

Mezzogiorno o quasi. Non nevica. Sono però ricoperto da una spessa patina di grasso. Nonostante ormai rientri nella poco ristretta cerchia degli obesi il grasso non è mio. La fabbrica per la quale è iniziata la trasferta è ferma praticamente dall’inizio del secolo scorso, penso che dopo la costruzione della torre Eifell abbiano deciso di non utilizzarla più. È raccapricciante, ma affascinante, come tutti i miei rapporti sentimentali. Un dedalo di strutture metalliche che mi immagino un giorno sbuffanti giace nell’ombra abbandonata da anni. Ora vogliono tirarla a nuovo e allettandoci con fondi illimitati mi chiedono cosa ne farei. Io penso ad un luna park ed ai film di Tim Burton, proverei a suggerirgli nani in calzamaglia, spilungoni in frac con il volto truccato da teschio e qualche zucca qua o là, avrei anche un amico in grado di procurarmi qualche cadavere, ma mi sa che non sarebbero felicissimi di questa risposta, inoltre mi accorgo che mi mancano alcune parole in inglese per spiegargli il tutto…sennò vedrebbero anche loro. Insieme ai proprietari vaghiamo per i lunghi corridoi, costellati da serie infinite di tubi rosso vermiglio, valvole e rubinetti; le potenzialità mi sembrano infinite. All’incirca come la noia che inizia a montarmi in spalla sotto forma di scimmiotta. Mi manca un organetto a manovella ma ormai mi immagino parte del luna park.

Ho ancora tempo per osservare la classica fila di lucernai che interrompe la continuità della lamiera ondulata del tetto; attraverso uno di essi questa volta non filtra luce come in tutti i racconti che si rispettino, ma cade senza cura dell’edera. Ha un qualcosa di romantico. Chiaramente il segnale non arriva al mio cervello.

Il breve, ma non troppo, tour all’interno della struttura dimenticata termina. Prendo tempo per elaborare un intervento. Mi accorgo con non poca ansia delle mie dita, specialmente delle loro estremità. Penso che non riuscirò mai più a ripulirmi.

Diventa l’una. Mi levo il camice bianco monouso che accuratamente ripongo in una macchina che lo distruggerà con altrettanta cura. Andiamo a mangiare qualcosa in un ristorante di lusso. L’immagine dell’ennesima bottiglia di Bordeaux e l’unica che ricorderò per parecchie ore.

19:55. Completamente spanato. Così si dice dalle mie parti. Sono seduto su una panchina per un attimo di riposo. Sento bambini gridare ed il cielo sembra un enorme tatuaggio nero, ma non sono in una canzone dei pearl jam. Provo ad immaginarmi i loro nomi, fa uno strano effetto, ma questo giochetto che di solito mi diverte molto, qui non viene. I bambini non gridano parole in italiano e quello strano effetto finisce ancora prima di iniziare. Sono abbastanza stanco, quindi, completamente solitario, mi dirigo verso l’albergo cercando di incontrare, almeno con lo sguardo, più donne possibile. Non si sa mai.

Mi ci vuole un caffé, quindi mi butto nel primo bar che trovo e chiedo un peti cafe. O perlomeno qualcosa che si pronuncia così. Effettivamente mi porta quello che avevo chiesto, in più è molto carina. Purtroppo la lingua non aiuta e il massimo dell’approccio è Merci, parlevuangle? Risposta negativa e risata successiva. Tutto termina. Anche stasera mi devo dedicare alla ricerca del mio io.